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Il nodo degli investimenti al Sud
Un recente articolo di Marco Percoco su "Il Riformista" (se ne riporta qui sotto lo stralcio) stimola alcune riflessioni collocabili all'interno del dibattito sul federalismo, che ormai può vantare una lunga storia.
In particolare, le possibili distorsioni del meccanismo di selezione e allocazione degli investimenti - che lui segnala - sembrano replicare, in altra forma, quella penalizzazione che il Sud riceve dal meccanismo di stima dei fabbisogni standard basato sulle spese storiche.
Selezionare e allocare sul territorio gli investimenti sulla base di una valutazione, ancorché precisa e rigorosa, dei loro ritorni, può paradossalmente sfavorire l'infrastrutturazione del Mezzogiorno, ritardare il catching-up rispetto al Centro-Nord e impedire che una parte importante del Paese contribuisca alla crescita complessiva. Perché?
Perché le condizioni di partenza (status-quo delle stesse infrastrutture, variabili "ambientali", economie di scala, scopo, agglomerazione, etc.) influenzano o addirittura determinano in maniera significativa i ritorni degli investimenti pubblici. Se ci si dovesse basare soltanto sulla loro misurazione finanziaria all'interno di modelli di valutazione a più periodi (IA o DCF o qualsivoglia altra metodologia) è molto probabile che l'esito suggerisca di continuare a promuovere l'ammodernamento delle infrastrutture o il capital deepening nelle aree già evolute del Paese, quelle più pronte a mettere a frutto i nuovi strumenti e a dare riscontri subito. Ma se si continua a decidere lungo questa prospettiva (prevalsa sinora), il dualismo territoriale non potrà mai essere superato e diventerà sempre più difficile renderlo compatibile o tollerabile all'interno del quadro unitario dell'economia e della società.
Percoco suggerisce che, senza alcuna deroga alla serietà con cui gli investimenti vengono selezionati e messi in opera, l'analisi costi-benefici debba sforzarsi di integrare anche precisi obiettivi di perequazione tra territori, guardando ai ritorni su archi di tempo lunghi e, soprattutto, ai ritorni resi possibili da cambiamenti graduali ma generalizzati del livello di infrastrutturazione delle Regioni ora meno sviluppate (e non pretesi dal singolo investimento o dal singolo cespite).
Il cambio di rotta è difficile per tutti, a cominciare dalle Regioni del Sud che dovrebbero dimostrare di meritare gli sforzi di perequazione a loro vantaggio, ma il punto sollevato da Percoco è di buon senso e assolutamente convincente.
Tanto convincente che ricorda molto da vicino, come si diceva, l'altra osservazione che a più riprese sta ritornando all'interno del dibattito sul federalismo prima e sulla autonomia differenziata adesso: quello sul vulnus che la Regioni del Sud subiscono dal calcolo dei fabbisogni standard sulla base delle spese storiche.
Se alcuni servizi pubblici (regionali, comunali, di area vasta) sono stati storicamente sottodimensionati nelle Regioni del Sud rispetto al resto del Paese, questo non vuol dire che quel livello inferiore di offerta e di spesa possa essere adottato come riferimento di fabbisogno per il Sud, perché lascia insoddisfatta, inespressa o troncata la domanda. Per una trattazione completa ma anche di agevole lettura su questo punto, si veda per esempio "Zero al Sud" di Marco Esposito.
Il punto ci sembra lo stesso sollevato da Percoco: quanto la politica economica e le scelte di regolazione e di disegno istituzionale debbano adattarsi, in maniera passiva, allo status-quo di un Paese spaccato in due (le vesti da farsi a misura di gobbo di giolittiana memoria), e quanto, invece, debbano sforzarsi di cambiare rotta e creare nuove occasioni di sviluppo economico e di progresso sociale nelle aree rimaste indietro.
A livello logico e sulla carta la risposta sembra scontata, ma costruire il cambiamento si conferma sempre complesso.
Roma, 23 gennaio 2020
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