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Frank Hahn su Scienza economica ed Europa nel '92
Dagli archivi di la Repubblica, una intervista di Mario Pirani al Prof. Frank Hahn
Correva il 1992 e Frank Hahn rilasciava a Mario Pirani, per il quotidiano la Repubblica, questa intervista. Molto interessanti le parti in cui, in anni "non sospetti", preconizza l'era delle applicazioni empiriche su big data in assenza di una teoria capace di far da guida in contesti di crescente complessità. Ci sono, poi, i dubbi sulla costruzione dell'Europa e dell'Euro che, tuttavia, sembrano riferirsi più alla incompletezza politica (la mancanza di un vero e proprio governo federale europeo di cui non si intravedeva possibilità) che allo strumento in sè della moneta unica.
<< [...] La tappa inglese mi è stata suggerita dalla curiosità di conoscere, al di là delle ben note obiezioni politiche, le radici teoriche delle diffidenze britanniche nei confronti della unificazione monetaria e di una troppo spinta integrazione europea. Ricordavo, infatti, come, ancor prima delle ostilità combattive, ma non di rifiuto assoluto, di Margaret Thatcher, i laburisti avessero già assunto verso la Cee una ostilità di principio, il cui impianto teorico si rifaceva, appunto, alla Scuola economica di Cambridge. I suoi diretti esponenti sono ormai scomparsi ma, almeno per questo verso se non per altri, un loro epigono può essere considerato Frank Hahn, forse il maggior economista inglese vivente, ormai alle soglie della pensione (dall'anno prossimo viene ad insegnare a Siena, dove già tiene dei corsi).[...] Quando arrivo, su un cartiglio attaccato a una parete dello studio, vedo scritto: "My life tangs by a thread", ovvero "La mia vita è appesa a un filo". Mi chiedo se si tratti di un lontano riflesso dell' infanzia, quando con i genitori, due intellettuali ebrei, dovette fuggire, prima da Berlino, dove era nato e, poi, nel '38, da Praga, dove la famiglia si era rifugiata prima che vi arrivassero i nazisti. Ma la mia intuizione si rivela errata, almeno stando alla parola del professore, che attribuisce il simbolico detto all'incertezza degli studi economici e, quasi per certificarmelo, mi segnala le ultime righe di un suo articolo: "La mia tesi non è che le teorie del Ventesimo secolo non gettino alcuna luce, e neppure che i metodi che se ne ricavano non continueranno a darci qualche lume. Ma prevedo che questi lumi appariranno sempre più fiochi per ricercare risposte ai quesiti. I nostri successori dovranno interessarsi molto meno agli aspetti generali, per affrontare la complessità del particolare, come la simulazione informatica. Non sono per loro - o almeno lo sono meno spesso - i piaceri dei teoremi e della prova matematica. I nostri successori saranno tentati dalle teorie grandi e fumose per sottrarsi al tedio del computer. C'è da augurarsi che in complesso resisteranno a questa tentazione e aspetteranno pazientemente una nuova alba, come quella spuntata davanti a quanti di noi si sono avvicinati alla teoria economica dopo l'ultima guerra".
Una visione così disincantata è maturata lentamente, quale punto d'arrivo delle delusioni applicative della Teoria degli equilibri economici generali di cui lei è uno dei massimi esponenti, oppure è sempre stata la sua posizione? E la matematica, in questo scetticismo verso le idee generali, che ruolo ha? "Ho sempre creduto che la teoria economica avesse molta strada da fare per arrivare soltanto a metà cammino verso la cosiddetta scientificità. Come ho scritto in una nota biografica, ciò che mi separa da molti economisti americani è il fatto che essi considerano l'economia una scienza e spesso si autodefiniscono scienziati sulla base di quella visione del mondo, affermatasi nel XIX secolo, secondo cui quello che viene realizzato dalle scienze fisiche può essere ottenuto, con gli stessi mezzi, dalle scienze sociali. Ma finora l'economia non ne ha fornito alcuna prova. Se mai, l'economia può essere paragonata al cervello umano per il grado di complessità; quindi siamo molto lontani dal capirne il funzionamento. Non direi, dunque, che sono un disincantato, anzi sono affascinato dall'economia pur avendone una visione realistica e constatando come siano stati fatti progressi nella comprensione dei fenomeni ma non nelle previsioni. Il maggiore ostacolo è che l' evidenza empirica resta ambigua e non si può essere conclusivi nell'abbracciare o respingere una teoria. Per questo considero la pretesa che l'economia sia una scienza non solo prematura e non molto onesta ma, quel che è forse peggio, pretenziosa".
In Italia recentemente si è sviluppata una vivace polemica tra economisti proprio attorno all'uso eccessivo della matematica al di fuori di un sistema generale di pensiero. "Vuole che le dica qual è il guaio in Italia? La filosofia viene insegnata nelle scuole e da qui si sviluppano desideri di grandiosità: si vuol mettere insieme e collegare tutto, la sociologia con l'economia e con la politica. Ora, io credo che sia opportuno abbandonare le grandi idee ma non la matematica, che non è certamente di ostacolo al progresso del pensiero economico anche perché, se non riusciamo a fare economia con la matematica, allora non possiamo proprio fare economia. Più complicata è la materia, più complicato deve essere il linguaggio che la esprime; il linguaggio matematico ci assicura che non vi sono incongruenze nei nostri ragionamenti. Il problema è che non riusciamo a trovare soluzioni analitiche per tutto, e anche se io mi appassiono ai teoremi e non ai computer, capisco che al giorno d'oggi anche i matematici debbono ricorrere al computer, come ad esempio viene fatto per affrontare le nuove teorie sul caos".
Il nostro colloquio sta andando lontano dal tema che mi ero prefisso: l'atteggiamento inglese verso l'Unione monetaria. Lei, al di là degli aspetti politici, vi vede anche un risvolto teorico? "Ho tenuto qualche tempo fa una lezione alla Banca d'Italia dove ho spiegato, dal punto di vista teorico, perché l'Unione monetaria va contro quasi tutto quello che sappiamo di economia. C'è una teoria dell' area monetaria ottimale in cui si dice che la mobilità dei fattori della produzione è cruciale per il raggiungimento degli equilibri, anche se per un keynesiano questa teoria non tiene abbastanza conto di quella che egli considera la variabile centrale: il livello del reddito e, quindi, dell' occupazione. Ora la mobilità del lavoro è abbastanza elevata tra Inghilterra e Scozia, ma non altrettanto in Europa, per differenze culturali, di lingua, di costumi sociali e quindi fissare i tassi di cambio non è una buona idea".
"Tra l'altro, ho ricordato che la prima tesi contraria ai cambi fissi fu avanzata proprio da Keynes e si basava sulla difficoltà di riduzione dei salari e, quindi, del livello dei prezzi in un paese, se lo richiede la bilancia dei pagamenti. Tale difficoltà trasferisce allora il ruolo equilibratore dal livello dei prezzi al livello del reddito e dell'occupazione. In altri termini, quando l'industria di un paese non è più competitiva, si produce uno squilibrio tra importazioni e esportazioni che si riflette sulla bilancia dei pagamenti: per farla tornare in equilibrio il costo di produzione industriale dovrebbe diminuire grazie a una riduzione dei salari, ma questo è praticamente difficile, se non impossibile, a causa delle resistenze sindacali e politiche, per cui la via scelta è quella di diminuire l'occupazione e, per questo mezzo, realizzare l' equilibrio perduto. Con l'Unione monetaria, invece delle fluttuazioni del cambio, si avranno fluttuazioni nel tasso di disoccupazione".
Perché, allora, l altra grande area economica mondiale, gli Stati Uniti, che sono storicamente una Confederazione di Stati, hanno una moneta unica e un tasso di disoccupazione più basso dell' Europa? "Negli Stati Uniti trasferimenti delle persone da uno Stato all'altro o da una regione all'altra sono ingenti. Non credo che gli europei siano disposti ad effettuare migrazioni sufficienti ad alleviare la disoccupazione". Peraltro, non crede che i cambi fissi abbiano il vantaggio di assicurare certezza negli scambi internazionali? "L'argomentazione più comune contro l' adozione di cambi flessibili è, appunto, che essi creano incertezza, ma io credo il contrario. Questo in quanto i mercati valutari sono molto sviluppati; ci sono i mercati a termine e ci si può coprire contro i rischi di cambio. Di contro, come ho detto, i cambi fissi sostituiscono le fluttuazioni del cambio con quelle dell'occupazione. Il vero motivo per sostenere i cambi fissi è, in effetti, il controllo della classe lavoratrice. Infatti, fintanto che i governi non creano un meccanismo che leghi loro le mani, non è possibile contenere l'inflazione salariale. Credo che i sostenitori del cambio fisso vogliano introdurlo solamente per la paura dell'inflazione e, poichè di questi tempi siamo nelle mani dei banchieri centrali, per i quali il grande nemico è l'inflazione più che la disoccupazione, questa scelta si spiega. In Gran Bretagna qualcosa tra il 2% e il 4% del prodotto interno è stato sacrificato per combattere l'inflazione. A mio avviso il prezzo da pagare è troppo alto anche se i banchieri centrali non la pensano così e il Cancelliere dello Scacchiere è del loro avviso. Con i cambi fissi pagheremmo questo prezzo fino in fondo".
Lei, dunque, non teme che l'inflazione sia un pericolo e che, come ha scritto recentemente l'Economist in un articolo che ha fatto discutere, l'unico tasso d' inflazione desiderabile sia zero? "Io temo l' inflazione molto meno di tanti altri: temo molto l'inflazione in fase di accelerazione ma non l'inflazione di per sé. L'Economist sottostima l'intelligenza della gente. Gli operatori possono imparare quali sono le variazioni dei prezzi relativi sia con un inflazione al 3% che allo 0%. Non scaturisce niente di speciale da una inflazione a tasso zero: la cosa importante è che l' inflazione sia costante. Molti studiosi sono d' accordo nel dire che l'inflazione pienamente prevista non comporta costi. La gente non vuole l'inflazione quando è inattesa; basta pensare all'effetto di quest' ultima sul reddito di un pensionato. Tuttavia non dobbiamo nasconderci che in questo ragionamento resta una questione irrisolta, e cioè come mantenere l'inflazione costante. Questo è un vero problema".
Come lo affronta? Con la politica dei redditi? "Io penso che ci sia un tasso d' inflazione naturale, in quanto molti aggiustamenti che si producono nel mercato avvengono in presenza di prezzi crescenti. Anche i comportamenti cooperativi tra le parti sociali si realizzano con prezzi crescenti e l'inflazione in questo caso diventa quasi un lubrificante delle relazioni sociali, aiuta a trovare l'accordo. Del resto tra il 1945 e gli anni Sessanta c'era un' inflazione al 2,5 per cento e la disoccupazione all' 1,5 per cento e nessuno si preoccupava".
Per quanto tempo prevede si prolungherà l'attuale situazione di prolungata stagnazione? Se le prescrizioni keynesiane sono inapplicabili quale politica economica potrà riempire questo vuoto? "Non credo che ci sarà una stagnazione. I meccanismi riequilibratori - sia politici che economici - sono potenti. In Gran Bretagna la recessione è stata indotta dal governo che ha voluto ridurre l'inflazione e se ci dovesse essere veramente una stagnazione politici e banchieri centrali ne sarebbero responsabili. Peraltro, dall' 87, la politica economica in Inghilterra come negli Stati Uniti è diventata più espansiva. Quanto alle politiche keynesiane, non credo che siano state un fallimento, tanto che ora il governo conservatore le sta usando. Dobbiamo ricordarci, però, che esse sono state formulate per periodi di alta disoccupazione e non per situazioni abbastanza vicine alla piena occupazione. La gente è portata a concludere che esse hanno fatto fiasco solo perché oggi non ce n'è bisogno, ma se diventasse opportuno mettere in atto quelle ricette, allora potremmo utilizzare tutte le conoscenze che abbiamo acquisito, da Keynes in poi".
Perché è contrario a una Banca centrale europea indipendente? "I lati positivi di una banca centrale indipendente sono evidenti. Essa, però, fa comunque parte delle istituzioni politiche e sociali di un paese e coloro che la dirigono non saranno totalmente impolitici e terranno ben presenti gli interessi delle loro stesse economie: ad esempio la Bundesbank finì per seguire Kohl al momento della riunificazione. Ma non c'è all'orizzonte un governo federale europeo e non si capisce perché si debba avere una banca centrale sovranazionale: è difficile pensare a una istituzione politicamente più destabilizzante".
Resta, comunque, il fatto che il Regno Unito, malgrado le difficoltà che inizialmente frappone ad ogni passo dell'integrazione europea e alle eccezioni che oppone alla piena attuazione delle istituzioni comunitarie, in un secondo momento finisce in genere per accettarle. Come spiega questo atteggiamento? "Il motivo principale per cui la Gran Bretagna è riluttante a far parte dell'Europa è che una larga maggioranza della popolazione è contraria a questa idea per vari motivi. In primo luogo una certa xenofobia di vecchia data e la convinzione che l'Europa significhi burocrati e politici corrotti. Gli inglesi, invece, sono molto fieri, e a ben ragione, delle loro istituzioni politiche e non vogliono perderle. Il motivo per cui alla fine cedono sta nel timore di rimanere isolati, soprattutto dal punto di vista economico. Una Europa unita piace molto ai politici, ed è un bene per loro, ma non per tutti noi. Io vedo il futuro dei popoli in piccole unità che si autodeterminano il più possibile: un enorme Stato europeo, controllato da Bruxelles è una prospettiva che mi fa paura". >>
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