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IA: vizio privato o pubblica virtù?
Giovanni Perrone, dopo il workshop organizzato da Reply per #XChange2018 sui cambiamenti economici e sociali che arriveranno dall'Intelligenza Artificiale, riporta i principali punti. Impatti significativi anche sulle professioni e le qualifiche che oggi consideriamo specializzate e qualificate.
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Nel corso dell’eccellente workshop organizzato da Reply per #XChange2018 dal titolo “Intelligenza Artificiale – tra miti e realtà”, ho portato a casa un po' di take-away.
Innanzitutto che l’Intelligenza Artificiale impatterà i lavori più qualificati, quelli per i quali molti di noi hanno speso tempo e soldi in istruzione e formazione: il controllo di gestione o la revisione contabile probabilmente al più tardi tra qualche decade non ci saranno più. O almeno: non ci saranno nei modi e nelle forme che conosciamo oggi, perché si stanno già sperimentando con notevole successo tecniche di Intelligenza Artificiale in tutti i campi: dai Reconciliation systems alla Fraud prevention. In secondo luogo l’Intelligenza Artificiale non è il futuro: è già il presente. Ha ormai oltre due anni MarginMatrix, un software creato da Allen & Overy e Deloitte per gestire per conto delle banche i nuovi processi di compliance previsti per i derivati over-the-counter e in grado di redigere in tre minuti documenti che fino a ieri richiedevano tre ore di lavoro di un avvocato. Così come ha due anni l’avvocato-robot DoNotPay.Com (il suo ideatore ne aveva 19 quando l’ha lanciata!) che nei soli primi 4 mesi di vita è stato utilizzato da 86.000 persone per appellarsi alle multe ricevute per divieto di sosta in USA e UK e risparmiare così 2 M£.
Il Digital controller in Reply è ormai realtà. I ricercatori dell’University of Heidelberg hanno “sfidato” 58 dermatologi di 17 paesi su 100.000 immagini e l’Intelligenza Artificiale ha battuto quella umana diagnosticando accuratamente il 95% dei tumori della pelle contro l’86.6% del team di medici. Vista così sembra ci sia poco da stare allegri. Ma invece è molto confortante il clima molto positivo ed ottimista che si respira quando parla di Intelligenza Artificiale chi conosce l'Intelligenza Artificiale: a differenza di quelli che ne stanno ancora fuori, infatti, ben pochi di coloro che si stanno avventurando in questo mondo sono preoccupati dalla scomparsa di posti di lavoro, perché sono al contrario troppo attratti dal tempo che l'Intelligenza Artificiale ci aiuterà a liberare per svolgere attività a ben più alto valore aggiunto rispetto, ad esempio, a quello generato dal compilare pile di time-sheet per la gestione delle commesse. E il motivo di tanto ottimismo ed entusiasmo da parte di chi conosce la materia forse deriva dalla consapevolezza che anche l’Intelligenza Artificiale ha un limite: il dato.
Innanzitutto gli algoritmi di Intelligenza Artificiale hanno bisogno di un numero enorme di dati per poter performare bene. Per portare un algoritmo di Intelligenza Artificiale a livelli paragonabili a quelli della intelligenza umana occorre “istruirlo” con qualche milione di osservazioni per ciascun dato che gli si vuol far considerare. Con qualche migliaio si arriva appena alle capacità di un bambino di tre anni! D'altronde algoritmi che mirino a replicare attività umane dovranno pur sopperire in qualche modo all'esperienza che l’essere umano si è fatto negli ultimi due milioni di anni, da quando cioè ha cominciato a camminare su due piedi e ad utilizzare il fuoco. La buona notizia dunque è che le macchine hanno bisogno di grandi volumi di dati passati per poter apprendere come prendere decisioni in futuro: in altre parole gli algoritmi non riescono a gestire cose che non hanno visto molte volte prima.
Quindi sarà al sicuro chi saprà ritagliarsi un ruolo in cui sarà necessario affrontare continuamente situazioni sempre nuove: probabilmente nessun algoritmo di intelligenza artificiale riuscirà a replicare la stessa intuizione che permise a Percy Spencer (un ingegnere americano che durante la Seconda Guerra Mondiale stava lavorando ad un radar a micro onde per intercettare gli aeroplani tedeschi) di inventare il primo forno a micro-onde solo perché si accorse che il magnetron che stava testando aveva sciolto la barretta di cioccolato che aveva in tasca. Sfortuna (o fortuna?) vuole che a questa fame endogena di dati corrisponda il fatto che gran parte dei dati non sono nativamente fruibili per un modello di Intelligenza Artificiale, ma spesso vanno preparati, taggati, normalizzati e digitalizzati con attività (fortunatamente?) umane. Il che significa che almeno per un po’ ci sarà bisogno di nuove professionalità: dai Data curators agli Intelligence designers.
E qui si arriva all'ultimo dei take-away di questa giornata che in realtà torna al primo, ovvero al legame tra Università e lavoro. Se il lavoro per cui finora abbiamo studiato tra qualche anno non ci sarà più, occorre ripensare (e in fretta) al sistema scolastico e universitario: l'Italia non può permettere che i propri giovani studino per prepararsi a lavori inesistenti. Secondo un paper di fine 2017 di Ernst & Young in Italia dal 2008 non solo è cresciuta la disoccupazione ma sono cresciute anche le job vacancies. Siamo quindi nel peggiore degli esiti possibili: la scuola italiana fornisce professioni che non servono e non fornisce le professionalità di cui abbiamo bisogno.
Occorre partire dunque, ancora una volta, dalla scuola e dell'università. Per trasformare l’Intelligenza Artificiale da “vizio” privato a pubblica virtù.
GP, 5 Luglio 2018
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