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A bottle-message per la Corte costituzionale del 2040
All’interno delle pensioni in erogazione, quelle calcolate in toto o in parte con le regole contributive sono diventate una quota significativa: se si sommano le pensioni interamente contributive, quelle miste post riforma “Dini” e quelle miste post riforma “Fornero”, nel 2024 il loro numero arriva a quasi il 65 per cento di quello delle pensioni interamente retributive. Se si guarda alle pensioni di nuova decorrenza, invece, le pensioni che derivano anche da annualità valorizzate con le regole contributive sono già la assoluta maggioranza.
Nel calcolo delle pensioni (o parti di pensione) contributive, il rendimento dell’1,5 per cento reale che matura sul montante nozionale post pensionamento, tende a ridimensionare, sia in punto di Diritto sia sul piano economico-finanziario, il vulnus di rallentamenti dell’indicizzazione delle pensioni ai prezzi. L’1,5 per cento è ben al di sopra del tasso di crescita del PIL degli ultimi venti-venticinque anni e delle proiezioni macroeconomiche della crescita a medio-lungo termine.
Se le pensioni partono già calcolate con una componente di valore aggiuntiva rispetto all’equità previdenziale, allora rallentarne l’adeguamento nominale non può essere visto tout court come un danno patrimoniale, soprattutto quando il rallentamento avviene per fronteggiare situazioni di crisi della finanza pubblica che mettono a repentaglio qualcosa di più dei diritti acquisiti tramite il “contratto” pensionistico del primo pilastro, e cioè i diritti, costituzionalmente garantiti, alle cure sanitarie, al sostegno economico per i privi di mezzi, all’istruzione e, più in generale, alle altre prestazioni a finalità redistributiva che quasi sempre hanno molta più urgenza, coinvolgono le generazioni giovani e, anche per questo, hanno molta meno voice.
Un conto è porsi il problema di tutelare il valore reale di prestazioni previdenziali interamente guadagnate; altro è affrontare lo stesso problema per prestazioni previdenziali che nascono sovradimensionate. Un conto è porsi entrambi i problemi in fasi storiche in cui la finanza pubblica è in salute; altro conto è farlo quando le risorse sono insufficienti e negli ordini delle priorità da soddisfare altre prestazioni redistributive e assistenziali verrebbero prima delle pensioni (la sanità e la scuola universalistiche, solo per fare due esempi). Questa riflessione potrebbe e dovrebbe trovare spazio nelle valutazioni della Suprema Corte, che ancora una volta viene chiamata a esprimersi sul raffreddamento dell’indicizzazione per il 2023 e il 2024. La sentenza arriverà nei prossimi mesi e probabilmente nel 2025, a sessione di bilancio conclusa.
La Legge di bilancio per il 2024 ha annunciato una modifica delle regole di indicizzazione dopo l’impatto molto forte dei picchi inflazionistici post COVID-19 sulla spesa per pensioni. Sulla scorta delle riflessioni appena formulate, questa RN propone una bozza di soluzione eventualmente da adattare nei dettagli applicativi: le pensioni (e le quote di pensione) contributive continuerebbero a essere calcolate così come già avviene anticipando un tasso reale dell’1,5 per cento; successivamente e anno per anno, sarebbero agganciate alla dinamica del FOI (con o senza tabacchi) ma con recupero dello scarto tra la crescita effettiva del PIL e l’1,5 per cento. La modifica sarebbe assista dal vincolo di non riduzione dell'importo nominale nel tempo. Pur studiate a partire dalle pensioni contributive, queste regole potrebbero essere applicate a tutte le pensioni, anche a quelle interamente retributive già in erogazione. Sarebbe un modo per chiedere anche a loro, esentate dalla riforma “Dini” e in alcuni casi anche dalla riforma “Fornero”, un più concreto concorso al riallineamento della spesa pensionistica.
Sarebbe una scelta impegnativa e per molti versi radical, se ne è consapevoli; ma anche con diversi effetti collaterali positivi, oltre il miglioramento della sostenibilità dei conti. La questione del raffreddamento dell’indicizzazione finirebbe finalmente “in soffitta”, la Corte costituzionale non se ne dovrebbe più occupare e, soprattutto, le sessioni di bilancio non dovrebbero più svolgersi, come per esempio in questa fine d’anno 2024, con la “spada di Damocle” del giudizio di costituzionalità pendente su misure già prese e anche per importi di rilievo. Il realismo delle nuove regole ─ con l’eliminazione dell’aggancio all’inflazione incorporato surrettiziamente nel tasso di crescita reale garantito e anticipato per tutta la durata del pensionamento ─ spingerebbe tutti a prolungare l’attività lavorativa per irrobustire l’assegno. La crescita effettiva del PIL andrebbe a incidere anche sulla dinamica della pensione dopo avere inciso sul calcolo del suo importo iniziale. Si adotterebbe una logica uniforme tra quello che accade prima e quello che accade dopo il pensionamento, e gli anziani avrebbero un motivo in più per sostenere (anche col voto!) le scelte migliori per la crescita, e per “fare il tifo” per le generazioni giovani e attive nelle cui mani sono la crescita e il futuro. Non sarebbe una soluzione a dividere ma, semmai, a unire gli intenti delle generazioni. E, a pensarci bene, neppure così radical. Ma ognuno legga, se vuole, e valuti.
Red. Ref.
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