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Meritocrazia: analisi controcorrente
Domenico Gigante ci accompagna alla lettura de "La Tirannia del Merito", del filosofo americano Sandel.
Per chi è nato tra gli anni '40 e i '70 il merito è sinonimo di opportunità, mobilità sociale, crescita personale e sociale. Eppure, negli ultimi tempi se ne sta profilando il lato "oscuro".
Sandel e Domenico ci danno chiavi di lettura.
Nella seconda metà del Novecento, l'estensione a tutti dei sistemi scolastici e universitari si è combinata con fattori economici, demografici e di contesto internazionale favorevoli, e ha permesso che il merito funzionasse da "ascensore sociale".
La popolazione era meno numerosa, molto più giovane e in aumento.
Dopo la Guerra e partendo da una base ancora largamente agricola, l'economia aveva ampi spazi di crescita con saggi che, in Italia e nel mondo occidentale industrializzato, oggi sembrano un miraggio.
La competizione internazionale non era quella globalizzata e agguerrita di oggi.
Sull'"ascensore" c'era spazio per tutti, soprattutto per chi, con sforzo e merito, si era dotato di conoscenze e competenze che prima o erano rare o addirittura non c'erano (il capitale umano, come lo si sarebbe chiamato qualche tempo dopo).
Per lunghi anni, premiare il merito ha significato costruire una società aperta, e il mercato è stato il luogo fisico e normativo-giuridico nel quale le uguali possibilità potevano realizzarsi e concretizzarsi.
Da allora queste condizioni sono profondamente cambiate. Le popolazioni dei Paesi occidentali sono aumentate di numero e invecchiate, la crescita è quella ridotta di economie mature (con cui si misureranno i piani di rilancio tech, digital, green dopo la crisi da COVID-19), la concorrenza è diventata molto più serrata su scala globalizzata, i livelli di capitale umano e informazioni specialistiche per competere crescono con ritmi iperbolici (come gli sforzi di spostare avanti la frontiera delle scienze e delle tecniche).
In questo contesto - che a vario grado contraddistingue tutti i Paesi occidentali - il principio del merito fa emergere controeffetti difficilmente immaginabili nella seconda metà del Novecento. Applicato alla lettera e senza cautele (dando per scontato la sua bontà sempre), questo principio porta a esacerbare la concorrenza. Se siamo poco avvezzi a discutere di conseguenze negative del merito (tanto abituati a vederci la soluzione e non il problema) ma più preparati a discutere dei limiti del mercato (sui quali le scienze economiche hanno da tempo fatto chiarezza), nelle sue radici di fondo il lato "oscuro" del merito può essere spiegato così, come catalizzante e enfatizzante alcuni dei limiti del mercato.
Allo stesso modo che un principio quasi sacro per la democrazia, come la decisione a maggioranza, può trasformarsi in dittatura della maggioranza e in strumento di conservazione, quello del merito può diventare tirannia del merito e strumento di creazione di una élite con in mano le leve di controllo dell'economia e della politica.
Se chi riesce a fare le scelte giuste può, assistito anche dalla "dea bendata", arrivare alle posizioni sociali, professionali e reddituali più elevate (l'élite), mentre chi sbaglia o è vittima di circostanze sfortunose viene risucchiato nella marea del ceto medio sempre più omologato, indistinto, limitato nelle possibilità di azione, il principio del merito smette di promuovere libertà e opportunità, diviene divisivo e nel giro anche soltanto di due generazioni spacca la società in vincitori e sconfitti. I primi con mezzi di gran lunga superiori alla media pronti a essere riutilizzati per sviluppare nuovi talenti e nuovo merito da mettere a frutto nelle successive competizioni professionali, politiche, sociali; e i secondi con mezzi insufficienti e incerti che li relegano in perdurante condizione di affanno e subalternità.
Questo è il rischio denunciato da Sandel: che in un contesto concorrenziale troppo spinto e imperniato sul principio del merito, il successo immetta immediatamente in rapidi percorsi ascensionali (la "cordata" verso l'alto), mentre l'errore o la manchevolezza precludano la crescita e la realizzazione personale con scarsissime possibilità di recuperare (la "cordata" verso il basso).
Una epocale eterogenesi dei fini, con l'istruzione e il merito che, attesi nel secondo Novecento come strumenti per superare o quantomeno per smussare gerarchie sociali, rischiano di trasformarsi in fattori di nuova distinzione di classe: da una parte l'élite dei vincenti con alta formazione e mezzi professionali e finanziari e, dall'altra, la massa di quelli che non ce l'hanno fatta, risucchiati nel mare magno del ceto medio globalizzato e impoverito. Quando la conoscenza diviene appannaggio solo di un gruppo che se la tramanda nel tempo e ne riesce a monopolizzare i frutti, non ci si deve stupire che allignino posizioni antiscientifiche (le abbiamo davanti agli occhi proprio in questi mesi), che l'istruzione universitaria e post universitaria cominci a venire vista come non conveniente, che a livello di singola persona e di famiglia scompaiano quell'orizzonte di possibilità e quella percezione di poter essere artefici del proprio destino che nel secondo Novecento sono stati nel contempo motori di sviluppo e collante per la società.
Dopo aver descritto la tesi di Sandel riportandone ampi stralci (estremamente incisivi tra l'altro), Gigante cita alcuni esempi dalla situazione italiana, come il ruolo sempre più prevaricante della tecnocrazia in politica che porta come suo contraltare il movimentismo populista, certo stigma che colpisce chi per sua volontà o per incapacità (numero chiuso, predisposizioni naturali, complicazioni di percorso) non si laurea nelle materie più richieste dal mercato (le quantitative e l'economia), il (ri)disegno degli istituti del welfare con tanto rilievo sui comportamenti individuali da risultare più punitivi che stimolanti, l'effetto di separazione tra chi ha successo e merito e chi no che da livello individuale può assumere dimensione territoriale aggravando gli atavici problemi di divario. Gli esempi dal caso italiano sono solo accennati - come tiene a precisare Domenico - e saranno il tema di successivi approfondimenti.
Quello di Sandel è un messaggio di allerta ma non ci sono soluzioni facili. Soprattutto, non è facile mettere a punto soluzioni che siano coordinate a livello internazionale/europeo (dal momento che il problema ha origine e scala globali) e non scadano nell'errore opposto di mortificare il merito e di rallentare il progresso delle conoscenze e delle competenze per ottenere artificiosi risultati di riequilibrio (un déjà vu del '68). Un pianeta che sta per superare gli 8 miliardi di abitanti, con risorse sempre più scarse, ha bisogno del meglio delle capacità dell'intelligenza umana e del meglio delle tecniche.
Si chiude questa forse troppo lunga introduzione con due filmati. Nel primo c'è Sandel che racconta in pochi minuti e in maniera colloquiale il suo punto di vista (ci sono i sottotitoli in Italiano). Nel secondo c'è una intervista vintage a Giuseppe Persia, persona ben nota ai cittadini di Matera dove ha lavorato come operatore ecologico sino agli anni Ottanta avanzati. Perché due filmati così diversi che mettono faccia a faccia due personaggi così lontani nel tempo, nello spazio e nelle caratteristiche individuali? Sandel ci racconta da accademico i rischi di una società di vincenti assediati da perdenti senza soluzioni, Persia ci regala una formidabile non-accademica lezione sull'importanza del lavoro, di tutti i lavori, per il buon funzionamento della società e dell'economia e come esercizio quotidiano di dignità e costruzione. I due parlano della stessa cosa. Parafrasando Domenico: "Tenere a mente che il lavoro non serve solo a guadagnarsi da vivere, ma è anche un modo per sentirsi parte della società e per contribuire al bene comune e ottenere un riconoscimento da parte della collettività, significa rimettere la dignità del lavoro al centro".
La Nota di Domenico è scaricabile qui: Meritocrazia: una analisi controcorrente.
Red. Ref. - Roma, 17 gennaio 2022
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