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4 Novembre. Perché (non) festeggio
Esattamente cento anni fa, il 4 novembre 1918, si concludeva – con la battaglia di Vittorio Veneto – la Prima Guerra Mondiale.
Ci sono diversi modi per analizzare l'evento “Prima Guerra Mondiale” all'interno della storia dell'umanità. L'unico su cui possiamo concordare, a prescindere da qualsiasi colore ideologico, è che fu un'immensa carneficina; la più grande che l'umanità avesse mai visto prima di allora. Fu una tragedia di dimensioni tali da riguardare non solo i milioni di individui morti in battaglia (le cifre più accettate parlano di un totale, tra militari e civili, compreso tra 15 milioni e più di 17 milioni di morti) e le loro famiglie, ma anche, in modo mai visto prima in Europa (negli Usa c'era già stata la Guerra di Secessione), i sopravvissuti, che con difficoltà riuscirono a superare il trauma della guerra.
La Prima Guerra Mondiale non fu, infatti, una guerra come tutte le altre. Comportò il rifiuto delle più elementari regole di umanità in nome della Patria. Ragazzi giovanissimi furono costretti a vivere per mesi in fosse di fango chiamate trincee, sotto il rischio del fuoco dei cecchini. All'improvviso, saltuariamente, veniva dato il via a un assalto privo di senso. I soldati venivano drogati e gettati oltre trincea per andare a morte quasi certa. Molto spesso non per mano del nemico, ma per il "fuoco amico". Chi si rifiutava veniva ucciso seduta stante, senza ricorso alla corte marziale. Le chiamavano decimazioni.
Per porre rimedio al dramma collettivo (ma soprattutto per nascondere l’assurdità di un conflitto – voluto principalmente da una minoranza fomentata dall'ideologia imperialista – che aveva coinvolto così tante vite umane e aveva avuto come unico risultato qualche misero aggiustamento dei confini nazionali) si diede vita a un immenso e prolungato "rito consolatorio". Solo in Italia si ebbero oltre 600.000 morti e altrettante famiglie in lutto; i diciottenni della classe '99 spediti al fronte e i ragazzi del Sud mandati a morire per una fetta di terra – l'Istria – di cui non avevano mai sentito parlare.
Bisognava, quindi, restituire un senso ai sopravvissuti, una dignità ai morti, una consolazione alle famiglie. E così si celebrò la "Vittoria mutilata". I sopravvissuti diventarono tutti eroi – anche quelli che ne avrebbero fatto volentieri a meno; "uomini" degni del tributo dell'intera Nazione, anche se molti di loro avevano solo quattro peli di barba sul mento. Le loro sofferenze, anche psicologiche, furono messe da parte. Erano eroi e, come tali, fieri e coraggiosi. Le loro mancanze, paure, dubbi potevano essere dimenticati, rimossi, in nome del loro contributo decisivo alla Vittoria della Patria. Lo Stato si fece carico di costruire monumenti in tutte le città e paesini, in modo che i familiari dei soldati morti, i loro vicini di casa, i loro discendenti potessero ritrovare ogni giorno il nome del loro eroe scolpito nella pietra per l'eternità, a futura memoria.
Ogni ombra di critica venne cancellata, perché il Paese – ma soprattutto una certa classe dirigente – non si poteva fare carico di analizzare in termini oggettivi e spiegare in termini morali gli errori commessi, i crimini compiuti e i magri risultati della vittoria.
Inutile ripercorrere tutte le tappe che portarono da questa celebrazione collettiva delle vittime, da questa rimozione forzata del dolore e dell’orrore, al Fascismo e alla Seconda Guerra Mondiale. Fatto sta che poco più di 20 anni dopo la prima guerra se ne combatté una ancora più grande e sanguinosa e oscena. Alla fine di questo secondo conflitto i morti avevano ormai seppellito i morti. E i vivi dovettero finalmente fare i conti con quella che era la verità: il significato di tutto quello che avevano vissuto era solo un'orrenda carneficina. Niente vittoria, gloria, onore, Patria. Solo morti! Tanti, troppi!
Così la nostra relazione come cittadini nei confronti della Guerra e della Patria è mutata nel Secondo Dopoguerra. Non è che abbiamo smesso di appartenere a una Nazione, ma non ci sentiamo più solo cittadini di quella Nazione. Uno spirito di fratellanza più grande ha preso il posto – almeno in parte – della fratellanza tra i "figli della Patria". Siamo molto più critici e sospettosi riguardo ai motivi di una guerra. La "guerra giusta" ci sembra una manipolazione retorica. E quello che chiediamo alla Patria – come a tutte le altre “patrie” – più di ogni altra cosa non è di salvare l'onore, ma di trovare prima di tutto una soluzione pacifica. Non che tutto questo non abbia i tratti della retorica, esattamente come retorica era la celebrazione della vittoria mutilata, ma il sogno kantiano di una pace perpetua, di una federazione o repubblica mondiale che attraverso un ordine legale metta fine alla guerra per sempre, ha assunto i connotati di una vera aspirazione di ogni uomo, a prescindere dalla situazione politica del paese in cui vive.
E così arriviamo a oggi. Il senso delle antiche celebrazioni è ormai perduto. Non c'è più un lutto da trasfigurare. Il tentativo patetico di riportare in vita il sentimento o l’orgoglio per la Vittoria è destinato a fallire. Non ci sono più eroi, battaglie, martiri e sacrificio da festeggiare. È subentrata la consapevolezza che un popolo non può e non deve più subire per colpa della sete di grandezza delle sue élite politiche e militari un dolore così grande.
È questo che dobbiamo festeggiare oggi: la presa di coscienza che un popolo è veramente sovrano quando ha raggiunto una maturità tale da rifiutare l'uso della violenza e sfuggire alle manipolazioni da parte di chi lo vuole sfruttare in nome e per il fine di quella violenza. Lo dobbiamo non solo a noi stessi e ai nostri figli, ma anche a coloro che sono morti e hanno sofferto: perché l’unico risarcimento che possiamo dare al loro dolore è riconoscerlo per quello che è stato veramente. E’ questo il nostro dovere nei confronti della verità.
Siamo ancora lontani da questa maturità e i segnali odierni non rendono ottimisti. Ma se festeggiare oggi la fine di una guerra significa ricordare ciò che è stata – una carneficina inutile – e porre le basi di un'unità Europea più ampia e pacifica, allora mi sento di festeggiare.
Voglio chiudere in maniera più leggera questa mia breve considerazione, parafrasando una famosa frase di Churchill: “Gli italiani vincono le partite di calcio come se fossero guerre e vincono le guerre come se fossero partite di calcio". Se si trattasse solo di festeggiare una vittoria, allora forse faremmo meglio a festeggiare ogni anno la vittoria in Spagna ai Mondiali di calcio del 1982, piuttosto che la vittoria sul Piave, che da sola costò la vita a 240.000 uomini – Italiani e Austriaci!
Cerchiamo oggi di capire la differenza tra una guerra e una partita di calcio.
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