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Some alternative monetary facts
Non manca di tempismo questo working paper del Fondo Monetario Internazionale, che arriva proprio mentre, soprattutto in Europa, si va approfondendo il dibattito su nuovi scenari della politica monetaria dell'Area Euro post COVID-19.
Reforming ha già espresso alcune brevi considerazioni nella Nota "Nuovi vecchi equilibri tra Moneta e Bilancio" e prima ancora nella Nota "Bilanci, Debito, Moneta".
Qui si aggiunge la nostra altrettanto breve recensione, con le impressioni suscitate dal documento del Fondo.
Capita raramente di leggere documenti del Fondo che si concludano con l'invito a finanziare le misure di politica economica con emissione di debito.
Certo, l'invito è relativo, e probabilmente riguarda solo i Paesi che con la moneta hanno una tradizione di fallimenti e poca fiducia (quelli dell'America del sud, per esempio, o altri Paesi in via di sviluppo) e non l'Occidente di prima industrializzazione. Lo si intuisce dai vari riferimenti al grado di maturità dei mercati dei titoli del debito pubblico e al perfezionamento delle tecniche di gestione del debito ottenuto negli ultimi tempi. Andrebbe fatta una migliore distinzione.
L'invito è relativo anche perché il Fondo non suggerisce tout court di spendere, ovviamente, ma fa rilevare che chi deve adottare misure straordinarie di rilancio dell'economia post COVID-19 farebbe bene, nelle attuali condizioni dei mercati, ad approfittare dei bassi rendimenti richiesti dagli investitori evitando politiche monetarie straordinarie.
Un suggerimento così generalizzato (ogni Paese, ogni moneta, ogni grado di indebitamento, etc.) è di per sé opinabile, ma nello specifico lo è ancor di più perché le ragioni per stare lontano dalle politiche monetarie straordinarie non sono chiarite sino in fondo. L'argomento più netto si limita a dire che l'emissione di debito pubblico raccoglie risorse in cambio di titoli che poi sono commerciabili da tutti (banche, imprese, privati risparmiatori) sia sul mercato interno che sulle piazze internazionali, mentre la scelta di accreditare risorse nei depositi tenuti dalla banche commerciali presso la Banca centrale, per dare maggior raggio di azione al credito bancario, è leva che rimane circoscritta al circuito bancario nazionale (in accezione più o meno ampia a seconda della cornice istituzionale e regolatoria del Paese): "[...] fungible treasury securities [...] can be held by investors worldwide and used as collateral in global capital markets [while] deposits held at the central bank [are] tradeable only among banks authorized to hold such accounts". Il punto può essere corretto, ma si confronta l'emissione di titoli pubblici, per finanziare misure di politica economica, solo con una delle modalità, anche se la più diffusa e per certi versi quella standard, con cui può configurarsi la politica monetaria espansiva. Da una decina di anni a questa parte se ne stanno osservando altre, non standard e che utilizzano altri canali di immissione nell'economia.
Nel paper si afferma che non è con continue espansioni monetarie che si può sostenere la crescita di lungo periodo: the “neutrality” proposition” [of money] has almost universal acceptance (pag. 24, parte alta). Non si può non essere d'accordo, sarebbe la moltiplicazione biblica dei pani e dei pesci, ma non è questo il punto sui cui il paper apparentemente vorrebbe fare luce, che riguarda invece il possibile ruolo, anche straordinario ma temporaneo, della politica monetaria come leva per ottenere effetti reali altrimenti preclusi o difficilmente raggiungibili con altri strumenti di policy. Questo è l'interrogativo di fondo.
Quasi tutto il resto delle argomentazioni contra si appunta sulla relazione tra quantità di moneta e livello dei prezzi, tra tasso di variazione degli aggregati monetari e inflazione. Questa relazione, che in altre fasi storiche varie correnti di pensiero (neo-keynesiani, monetaristi, ultra-razionalisti, i vari Phillips, Fisher, Friedman, Lucas, etc.) hanno cercato di definire nel verso di causalità (più si espande la moneta più crescono i prezzi) e nella stima dei parametri (differenziando il breve dal lungo periodo), sembra adesso diventata fluida e instabile, come conseguenza della innovazione tecnologica nei sistemi di garanzia e pagamento che creano un crescente disaccoppiamento tra le scelte di politica monetaria delle Banche centrali e i mezzi monetari per via endogena (già) presenti nell'economia (inclusivi delle varie forme di credito tra soggetti bancari e non, nazionali e esteri). Se i mezzi di pagamento sono endogeni (bitcoin e criptovalute inclusi), la moneta non è più una leva di azione controllabile dalla Banca centrale e verificabile negli effetti.
A dire il vero, non di sola innovazione tecnologica deve trattarsi, visto che il paper porta l'esempio del Giappone, che negli ultimi dieci anni (dal 2012 a oggi, dall'inizio del mandato di Abe) è stato un grande esperimento su scala naturale di quatitative easing, e agli occhi di molti ha sollevato definitivi dubbi sia sulla causalità monetarista che su quella keynesiana e neo-keynesiana. Della prima non si sono visti, nonostante l'imponente e continuata direzione espansiva della politica monetaria, gli effetti sul tasso di inflazione; della seconda è mancato ogni tipo di riflesso sull'economia reale, crescita e occupazione (il Giappone è ancora in stagnazione). E se è vero che ne esce più malconcia la teoria quantitativa della moneta (comprese le sue elaborazioni più recenti), è difficile per l'impostazione keynesiana dire che il Giappone potrebbe corrispondere al caso estremo keynesiano della LM verticale, perché una "trappola della liquidità" continuativa per un decennio è qualcosa che trascende anche l'impostazione keynesiana (anzi, qualcosa su cui essa non si interroga neppure, concentrata com'è sul breve al massimo medio periodo). Certo, non sapremo mai come sarebbe andata a finire se non ci fosse stato il prolungato Japanese QE, perché va riconosciuto che un effetto reale è anche quello, ossia che cosa è stato evitato e sarebbe accaduto se non ci fosse stato un sostegno monetario così pervicace anche se apparentemente inefficace o addirittura controproducente.
Su questa lunga parte del paper che si occupa della relazione tra moneta e prezzi si intravedono due debolezze, una di ordine più tecnico e l'altra più di metodo, di lettura complessiva.
Per quanto riguarda la prima, la correlazione tra aggregati monetari e prezzi viene investigata senza clustering e senza utilizzare alcuna variabile di controllo. Quando il panel è ampio, a includere Paesi molto diversi per struttura dell'economia, attitudini monetarie e anche fasi cicliche che di volta in volta attraversano, mettere tutto in un gran calderone annacqua la rilevazione di possibili relazioni causali, che non stupisce infatti risultino deboli e variabili anche nel segno. Sempre sul piano tecnico, anche la scelta dei sottoperiodi su cui valutare la correlazione M-P resta opinabile, perché aggrega fasi storiche molto diverse tra loro. Un esempio su tutti: il periodo 1960-1989 mette assieme i "keynesianissimi" roaring '60s (in cui sembrava funzionare bene la politica monetaria espansiva a diretto supporto della politica di bilancio espansiva) e i '70 e gli '80 dominati da instabilità monetaria e inflazione che resero necessari rimedi monetaristi e controlli più stretti degli aggregati monetari. Anche da questo punto di vista, mettere tutto in un grande calderone temporale disturba la rilevazione di possibili causazioni.
Ma, al di là degli aspetti più tecnici, c'è una considerazione di fondo che è forse più importante alla luce della finalità del paper. Anche una volta dimostrato che la relazione tra moneta e prezzi è debole e instabile (diversa a seconda dell'aggregato monetario che si considera), questa evidenza non conduce a nessun risultato definitivo su possibili impieghi della politica monetaria, anche in vesti straordinarie, per ottenere effetti reali, ad esempio in funzione anticiclica o di sostegno degli investimenti in momenti ben definiti o di copertura finanziaria di misure settoriali. Anzi, verrebbe da dire, a maggior ragione quando la connessione tra aggregati monetari e prezzi è debole e lenta, è proprio allora che una stimolazione monetaria ha più chance, se immessa per i canali più idonei e utilizzata per gli impieghi più duraturi e produttivi, di cambiare il corso del reale.
Questo impatto immediato e forte sui prezzi viene, senza troppe argomentazioni e senza supporto empirico, fatto risalire al finanziamento monetario di interventi di politica economica (acquisto di titoli pubblici direttamente dalla Banca centrale, finanziamento del Tesoro su conto corrente di tesoreria, et similia): "The difference between Central bank direct liabilities created trading it in the open market for other government liabilities and money created by giving it away to finance fiscal expenditures is central to understanding why monetary augmentation has little impact on prices in the former context and significant immediate and lasting impact on prices in the latter". Si tratta di una attestazione opinabile nella sua vantata generalizzazione, non solo per quanto ha mostrato il caso Giappone, ma soprattutto all'indomani dei massicci interventi che la BCE ha svolto, in maniera crescente dal 2008 a oggi, per contrastare le crisi, prima quella finanziaria (il double dip del 2008 e 2012) e poi quella da COVID-19. La BCE si è spinta ai limiti del suo mandato, ha acquistato titoli pubblici in deroga alla capital-key rule, ha acquistato titoli privati anche sul mercato primario, ha annunciato costantemente la continuazione dello stimolo/sostegno monetario e più di recente anche l'impegno a finanziare il NGEU e il Recovery Fund (con l'acquisto di quelli che si possono definire primi esempi di Eurobond) e anche Fondi ah hoc per progetti settoriali legati alla transizione green e digital. Come si vede, una cassetta degli attrezzi rinforzata, molto più varia rispetto alla misura standard di aumentare le riserve presso la Banca centrale a disposizione delle banche commerciali che il paper sembra sottintendere sempre. Tutto questo è accaduto mentre l'inflazione scompariva dall'orizzonte dell'Eurozona. Anche la recente (inizi del 2021) risalita degli indici dei prezzi in Europa e in Us è per adesso interpretata come fenomeno transeunte (dovuto a disallineamenti post lock-down tra ordinativi e scorte, processi produttivi e disponibilità di materie prime e semilavorati) e comunque ben lontano da una fiammata inflazionistica.
Insomma, l'impressione che rimane al lettore è che in questo paper il FMI si "mangi un po' la coda". Dopo tante argomentazioni a confutare la causazione tra la crescita degli aggregati monetari e l'inflazione, che è uno dei limiti e dei rischi (non l'unico) del ricorso a espansioni monetarie, il FMI suggerisce di finanziare le misure anti crisi e di rilancio con emissione di debito pubblico, stando lontano o comunque limitando al massimo il ricorso a politiche monetarie straordinarie. Il FMI teme probabilmente che della moneta si possa abusare, un po' come avvenne negli anni '70 e '80, gettando premesse per futura instabilità sui mercati finanziari e immobiliari e, a catena, nell'economia reale. Considerato il ruolo che da sempre l'Istituzione ricopre, non ci si dovrebbe meravigliare troppo che, anche all'interno di paper maggiormente accademici, lanci messaggi di avvertimento: con il debito si porta traccia evidente e formale delle manovre espansive e, soprattutto, il debito classato sui mercati è un termometro costante che riflette le valutazioni diffuse sullo stato dell'economia e sulla sua guida; con il finanziamento monetario le politiche espansive trovano invece minore resistenza esterna.
Per comprensibili che siano, i timori del FMI non andrebbero però generalizzati. Se quello che sta venendo fuori è che gli effetti di espansioni monetarie non rispondono a leggi stabili e universalmente valide, ma dipendono dal contesto Paese, dal momento ciclico o meglio ancora dal momento storico (la pandemia non segna un semplice ciclo ma una intera fase storica con un profondi break strutturali), un possibile più pervasivo ruolo della moneta andrebbe valutato in maniera molto più contestualizzata. E a dire il vero questo aspetto emerge anche se vagamente da alcuni passaggi del paper, contribuendo a rendere ancor più contraddittoria la sua linea. Ad esempio viene citato Sims: "Recent expansions of central bank balance sheets and of the levels of rich-country sovereign debt, as well as the evolving political economy of the European Monetary Union, have made it clear that fiscal policy and monetary policy are intertwined. Our thinking and teaching about inflation, monetary policy, and fiscal policy should be based on models that recognize fiscal-monetary policy interactions". Una maggiore cooperazione tra politica fiscale (o di bilancio) e politica monetaria è quanto manca all'Eurozona, che sinora ha tenuto completamente separati i due lati della politica economica, per tante ragioni che non si possono passare in rassegna adesso (se ne è parlato in "Nuovi vecchi equilibri tra Moneta e Bilancio") ma che rimandano all'eterogeneità dei Paesi Membri, alla mancanza di sufficiente fiducia, ai tempi necessari per il disegno istituzionale sovranazionale e comunitario. etc..
Per l'Eurozona (almeno per l'Eurozona), il tema di una più flessibile combinazione tra politica di bilancio e politica monetaria ("[...] fiscal policy and monetary policy [...] intertwined"), anche con quest'ultima che si spinge a forme di finanziamento di misure di politica economica con creazione di nuova moneta ("[...] money created by giving it away to finance fiscal expenditures [...]"), resta aperto e questo paper del FMI non lo ridimensiona. Come si è già osservato, il paper può valere come monito, a ricordare che. soprattutto in un'area monetaria comune, una politica monetaria interventista è leva molto potente, assume molte delle qualità della leva fiscale e si veste di finalità allocative e politiche, con possibili risvolti redistributivi tra Paesi, settori, bacini geografici e cittadini soprattutto nelle fasi inziali degli interventi. Come tutte le leve molto potenti, se ne deve fare uso sapiente e ponderato, chiamandole in causa quando sono chiari e condivisi i benefici futuri.
Keynes sosteneva che la peculiarità della moneta è quella di asset che permette di aspettare, di temporeggiare, di dilazionare le scelte sino a quando le condizioni (ambientali, informative, strategiche, diplomatiche, e ogni altro aspetto che possa incidere sugli animal spirits) saranno propizie. Tra i ricordi del primo corso di Politica Monetaria in Bocconi (Milano, inizio anni '90) c'è anche questo paragone che saltò fuori sulla dimensione strategica della moneta che permette di volgere il tempo a proprio vantaggio, esattamente come sovente è accaduto nelle grandi battaglie campali che hanno cambiato il corso degli eventi, esattamente come avvenne per Quinto Fabio Massimo che si guadagnò l'appellativo di Temporeggiatore rallentando i ritmi degli scontri con Annibale per permettere ai Romani di riprendersi dopo la sconfitta del Trasimeno. Non c'entra nulla con il tema che qui si sta trattando ma vale la pena osservare: Ma quanto è importante che i professori riescano a sollecitare l'immaginazione degli studenti pescando nella Storia, nella Filosofia, nella Letteratura! Ogni segno sarà più duraturo.Una qualità della moneta, questa, che però è anche una spina nel fianco delle economie, perché implica che nei momenti di crisi tutti tendano a tesaurizzarla (compreso il sistema bancario) e nessuno voglia fare la prima mossa di ricominciare a spendere e investire per contribuire a dare impulso alla ripresa (la famigerata "preferenza keynesiana per la liquidità"). Keynes non ci risulta lo abbia mai detto, ma suona molto keynesiano anche dire che la moneta, anzi la base monetaria, la moneta di fresca creazione, ha anche un'altra qualità, quella di fare da ponte verso il futuro, aprendo possibilità di spesa e di investimento (attribuendo nuovi saldi liquidi spendibili), altrimenti precluse, proprio nei momenti in cui l'economia ristagna al di sotto del potenziale e si intravede la realizzabilità di proficui cambiamenti strutturali e di ritorni reali ad ampio spettro. La moneta permette di aspettare, e la stessa può permettere di andare oltre; la moneta viene in soccorso di chi ha paura del futuro, e la stessa può essere strumento per modellare il futuro. Il senso della cooperazione tra Moneta e Tesoro, tra politica monetaria e politica di bilancio è in quest'ultima accezione. Bisogna però esserne all'altezza, perché il passo per diventare "stregoni" della moneta può essere più breve di quanto si immagini.
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